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lunedì 23 aprile 2012

IL BOOKCROSSING, QUANDO I LIBRI VIAGGIANO

Il BookCrossing, quando i libri viaggiano. Uno dei motti del BookCrossing è questo: "Un libro non solo è un amico, ma vi trova nuovi amici. Possedendo un libro con la mente e con lo spirito ci si arricchisce, ma quando lo si passa a qualcun altro si triplica la propria ricchezza". I libri della mia vita (1969) di Henry Miller. Potrebbe capitarvi di trovare un libro abbandonato sulla panchina di un parco, magari mentre state portando il vostro cane al guinzaglio. Se vi avvicinate noterete uno strano numero sulla copertina, chiamato BCID, ecco che state per scoprire il BookCrossing, c’è scritto tutto (qui). Comunque, se provate a portarlo vicino all’orecchio, più o meno potrebbe sussurrarvi: “Evita di seppellirmi nella libreria di casa, o di scavare un buco, come farebbe il tuo cane con l’osso! Un anno fa riposavo sul sedile di un treno, poi sono finito nella cassetta della posta di una pediatra, sono rimasto nella sua sala d’attesa per un mese, per capitare in una comitiva di amici con la fissazione della lettura, così mi hanno infilato dietro lo schienale di un aereo. Sono stato dall’altra parte del mondo e sono ritornato. Sono precipitato tra le riviste di una parrucchiera dagli occhi azzurri e i riccioli biondi. Ieri una signora mi ha letto di un fiato, proprio su questa panchina, infine tu hai cominciato a mettermi gli occhi addosso, a disegnare cerchi nel parco con me al centro, per capire se qualcuno mi aveva dimenticato. Eccomi finalmente tra le tue mani e credo che tu abbia deciso di tenermi con te, lontano dal tuo cane, spero, ancora per qualche giorno. Non vedi l’ora di conoscere cosa ci sia nascosto sotto la mia pelle di carta… Beh… posso solo dirti che questo libro appartiene alla biblioteca più grande del mondo: il BookCrossing. Ora tocca a te farlo continuare a viaggiare, e posso solo dirti… buon divertimento”. Il BookCrossing vuole unire le persone attraverso la passione della lettura. Sul sito di riferimento viene attribuito un codice chiamato BCID (BookCrossing Identity Number), è composto da diversi numeri, i primi tre vengono conosciuti solo da chi rilascia il libro e da chi lo trova, questo rende rintracciabile il libro e ogni lettore può scrivere un commento su internet. Capita così che un libro lasciato su una panchina in Italia possa arrivare in America, in Canada, in Australia e così via. Il BookCrossing è gratuito. Ci sono attualmente quasi un milione di BookCrosser e circa dieci milioni di libri che viaggiano in centotrentadue paesi. I libri si possono trovare casualmente (in stazione, su una panchina, nei pressi di un monumento) o in una zona di scambio ufficiale (Official Crossing Zone, OCZ), ossia zone formalmente registrate dove sono a disposizione i libri rilasciati da altri bookcorsari e dove chiunque può prendere o liberare libri. Le OCZ possono essere di vario tipo: sale d’attesa, biblioteche, locali pubblici che aderiscono all’iniziativa. Sono presenti in molti paesi e sono segnalate su mappe presenti in alcuni siti come ad esempio (questo). Volendo capire come è nata questa iniziativa, è necessario andare indietro nei secoli, perché già nella Grecia antica il filosofo Teofrasto liberava scritti chiusi in bottiglia in mare. Tuttavia, più recentemente Ron Hornbaker decise di prendere spunto da alcuni siti che tracciavano cose come le banconote e le fotografie, estendendolo ai libri. Questo è stato il punto di partenza, con l'aiuto della moglie di Ron, Kaori, e i co-fondatori Bruce & Heather Pedersen, il sito fu lanciato il 21 aprile 2001. Il sito rimane un modo divertente di “tracciare” e condividere i libri, e allo stesso tempo un modo per unire le persone anche se molto lontane. Per conoscere i corsari personalmente il modo più semplice è partecipare alle riunioni mensili, che si svolgono di solito il secondo martedì di ogni mese. Proprio il 20/21 aprile prossimi ci sarà a Roma un grande incontro nazionale, il MUNZ. Ci si incontrerà nella Biblioteca dell'Università Roma Tre, Sezione Spettacolo Lino Miccichè (CLS), via Ostiense, 139.

martedì 10 aprile 2012

Autore Giorgio Batini
Titolo Le radici delle piante
Sottotitolo Erbe, fiori, frutti, alberi, nel mito e nella leggenda
Edizione Polistampa, Firenze, 2003, , pag. 328, cop.ril.sov., dim. 155x215x30 mm , Isbn 978-88-8304-627-8
Lettore Giorgia Pezzali, 2005
Classe miti , natura , alimentazione




















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Indice
IL FASCINO DEL MITO 5

ACANTO Dobbiamo alla pietà di una balia
i più bei capitelli del mondo 13
ACONITO Per quest'erba un immortale chiese
agli Dei di poter morire 17
AGRIMONIA Sponsorizzata da due sovrani contro
il morso dei serpenti 23
ALBERI Erano Baccanti vogliose, alle quali
Orfeo disse no 29
ALLORO Tradito dallo spogliarello
il "travestito" di Dafne 37
ANEMONE Sbocciò dove fù ucciso il pendolare
del sesso 41
ARANCIO Ercole, per prendere tre pomi,
rischiò di reggere il mondo 47
ARTEMISIA Dipinta sulle diligenze garantiva
un buon viaggio 51
ASFODELO Nei Campi Elisi dei poeti
l'eternità è un prato fiorito 57
BASILICO Nacque da una testa mozza
(perciò guarisce l'emicrania) 61
BIANCOSPINO Spuntò per terra dal bastone
di San Giuseppe d'Arimatea 67
CAFFÈ È una pianta scoperta dalle capre
(che infatti sono sempre nervose) 73
CANNE PALUSTRI Se avete un segreto,
attenti alle pettegole! 77
CARLINA Sognato da un imperatore
il barometro dei pastori 83
CAVOLO Ha moltissimi parenti e tutti
profumano come lui 89
CIPOLLA Era il cibo preferito
dalle quadrate legioni 93
CIPRESSO È ovunque la pianta dei morti,
ma in Toscana fa compagnia ai vivi 99
CORNIOLO Ulisse scelse il suo legno
per fare il Cavallo di Troia 103
EDERA Furono i pirati etruschi i primi
"avvinti come l'edera" 109
FAGGIO A Vallombrosa protesse un Santo,
sull'Amiata l'amore di una contessa 115
FICO Fornì il primo vestito all'uomo
e alla donna 123
FINOCCHIO Fu Carlo Magno a scoprire
che il buono era sotto 127
GELSO I suoi frutti che erano bianchi
divennero neri in segno di lutto 131
GIACINTO Per un colpo di vento e
per colpa del vento 135
GIGLIO Era bianco, ma a Firenze prese
la tessera e diventò rosso 139
GIRASOLE Guarda da 3000 anni il suo
grande amore 145
GIUGGIOLO Attenti alle piante sacre.
Chi tocca i rami muore! 149
GRANO Fu seminato da un testimone del
"Chi l'ha visto" mitologico 155
LECCIO Offrì il legno per la Croce e
non perse più le foglie 161
MANDORLO Era una principessa innamorata
che morì per un fatale ritardo 165
MELO Era meglio se Adamo ed Eva
mangiavano una bella pera 171
MENTA Sarai sempre chiamata "erba santa"
le promise la Madonna riconoscente 177
MILLEFOGLIE A Troia il Pelide Achille
diresse la sanità militare 183
NARCISO Si vide bello allo specchio,
e s'innamorò di se stesso 191
NINFEA Gelosa del geloso Ercole,
fu tramutata in un fiore 197
NOCE Sotto quello di Benevento,
la discoteca delle streghe 207
OLIVASTRO Le sue olive sono amare come
le parole di un mitico pastore 213
OLIVO Nacque da un'aspra contesa
il famoso simbolo della pace 217
OLMO Quando lui divorziò dalla vite,
lei si risposò con un palo 223
PALMA Fu da questa pianta che i Pascià
ebbero l'idea di farsi l'harem 229
PEONIA Prima d'essere un fiore,
era il medico degli Dèi 237
PINO Fecondo per Plinio il Vecchio,
castrato secondo Ovidio Nasone 241
PIOPPI Sono le sorelle di Fetonte che
piangono per il disastro aereo 249
PREZZEMOLO Qualche fogliolina sulla testa
la riempie d'idee geniali 253
PRIMULA Rischia di morire zitella,
ma ha le chiavi del Paradiso 257
QUERCIA E TIGLIO Due vecchi sposi chiesero a Giove
di poter morire nello stesso istante 261
ROSMARINO Salvò sette ladri dalla peste e
ringiovanì una vecchia regina 269
SALVIA Nascose Gesù Bambino
ai soldatacci di Erode 275
TABACCO Invece di una medaglia d'oro,
davano agli eroi una tabacchiera 279
TÈ Quello di Boston dette il via
all'indipendenza americana 289
TIGLIO Furono i suoi semi
a inventare l'elica 293
VIOLA MAMMOLA In Grecia le origini
della "mucca pazza" 301
VITE Dopo tutta la grand'acqua del Diluvio,
Noè si fece una bella bevuta di vino 307

Bibliografia 317
Referenze fotografiche 320
Ringraziamenti 321








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Pagina 5
IL FASCINO DEL MITO



Forse non è mai venuta a trovarci, comunque non lo ricordiamo. Non ricordiamo se in tanti anni trascorsi nelle redazioni dei giornali e nelle case editrici, sia mai venuta a trovarci una mela per dirci che voleva scrivere la storia della sua vita. Sono venute, invece, frotte di pensionati, e anche maestre, ragionieri, geometri, marescialli, barbieri, camionisti, cassiere, artigiani, butteri, marinai, infermiere — e insomma di tutto un po' — a dirci se potevamo aiutarli a realizzare un sogno, che era quello di mettere nero su bianco e di scrivere le molte avventure di cui erano stati protagonisti, dal tempo della nascita al tempo presente, perché a loro erano successe cose straordinarie, e infatti dicevano tutti, ma proprio tutti, invariabilmente, "la mia vita è stata un romanzo". Naturalmente non era vero, non è mai accaduto che fosse vero, e con quello che raccontavano marescialli, infermiere, barbieri, e frotte di pensionati, non ci si faceva nemmeno una novella per il giornalino della parrocchia, nemmeno un raccontino per ragazzi.
Peccato che non sia mai venuta a trovarci una mela per chiedere di poter scrivere la sua vita, di poter raccontare le vicissitudini della sua esistenza. Pensate un po', la mela è il frutto dell'albero proibito e del serpente tentatore, è quella per cui noi dobbiamo lavorare, e le nostre donne devono partorire con dolore, è quella per cui Paride dovette scegliere una delle tre Grazie, ed ebbe in premio Elena, e scatenò la guerra di Troia, ed è, per un'ipotesi, il frutto che Ercole dovette cogliere alle Esperidi tra mille pericoli e difficolta. È anche la più importante città del mondo, è appunto la Grande Mela. Ed è anche il frutto che mangiato ogni giorno, leva il medico di torno. Avrebbe ragione a dire "la mia vita è un romanzo".

Peccato che non sia mai venuto a trovarci un rosmarino, o magari una salvia. Pensate che il rosmarino era chiamato dagli antichi nientemeno che "la rugiada del mare", difendeva le case dal male, era di buon auspicio per gli sposi, era l'erba della memoria, aiutava gli artisti a vincere la stanchezza mentale, era l'elisir di giovinezza. Un giorno Isabella, la regina d'Ungheria, che aveva superato i settant'anni, ed era malridotta, mezza zoppa, piagata dai dolori artritici, sentì dire da un vecchio e saggio eremita che per rimediare a certi malanni bastava una tisana di rosmarino, e naturalmente la cosa fece sghignazzare i medici della corte ungherese. Ma Isabella dette fiducia all'eremita, preparò e bevve per qualche giorno infusi di rosmarino, e a un tratto gridò al miracolo, e i cortigiani e le dame che accorsero alle sue grida, trovarono la regina non soltanto guarita e sana come un pesce, ma anche giovanissima e bella come non mai. La voce del prodigio arrivò al giovane sovrano di un regno vicino che volle accertarsi con i propri occhi di quello che era accaduto, e non appena vide Isabella, se ne innamorò, la condusse all'altare, e poi nell'alcova regale dove Isabella poté provare nuovamente piaceri che aveva dimenticato da un pezzo. Questo, sì, che è un romanzo. Tuttavia nessun editore si è mai interessato alla vita del rosmarino.



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Pagina 47
ARANCIO



Ercole, per prendere tre pomi, rischiò di reggere il mondo



Sull'arancio ci sono due probabili verità. Una è quella ufficiale, diciamo quella che è scritta nei libri di botanica, e nelle enciclopedie, dove si legge che il Citrus aurantium è un albero delle Rutacee con foglie ovate, fiori bianchi profumati (le "zagare", voce di origine araba), con frutto globoso, dalla polpa succosa e che se ne conoscono due varietà: l'arancio dolce (che per il colore della polpa è "biondo", "moro", "sanguigno", "sanguinello", "tarocco", ecc) e l'arancio amaro (detto anche "cedrangolo", "arancio forte", "melangolo"). Il primo sarebbe originario della Cina, e sarebbe stato introdotto dagli Arabi nella penisola iberica nel '300, benché altri sostengano che invece era già conosciuto dai Romani nel primo secolo d.C., mentre l'arancio amaro (che poi serve da innesto a quello dolce) sarebbe originario della Cocincina, sarebbe stato conosciuto e coltivato in tempi molto antichi dagli Arabi, e sarebbe stato coltivato in Sicilia intorno all'anno Mille. La polpa del Citrus vulgaris è un po' acidula, amara, ma è sempre stata apprezzata per la confezione di marmellate e conserve, mentre i frutti sono stati anche largamente usati per fare canditi, o preparare particolari liquori. (Nella Toscana settentrionale e nella Liguria meridionale, l'arancio amaro è molto diffuso perché resiste meglio alle basse temperature invernali, ed è usato per l'alberazione di strade, piazze e viali. A Massa è famosa la cosiddetta Piazza Aranci, dove cogliere o raccogliere un arancio, benché amaro, costa oltre diecimila lire di multa). Comunque l'arancio più diffuso in Italia e nel mondo è quello dolce, coltivato nelle sue numerose vaietà, e i cui frutti sono consumati per lo più freschi, mangiati cioè a spicchi, o bevuti come spremute.
L'altra possibile varietà è che gli aranci siano originari delle Esperidi, dove erano conosciuti come "pomi d'oro", dove erano vigilati da un drago, Ladone, che fu ucciso da Ercole (fu la sua undecima fatica), il quale peraltro se la cavò per il rotto della cuffia, poiché per impossessarsi di tre, dicesi tre, "pomi d'oro" rischiò di dover reggere, in eterno, il peso del mondo.

Diamo per conosciuta la complicatissima vicenda mitologica di Eracle, il più forte uomo della Grecia, cioè del mondo, (era appena neonato, quando strozzò con le sue manine due serpenti che lo avevano assalito nella culla), e partiamo da quando, al servizio di Euristeo, il gigante deve compiere dodici fatiche (per espiare precedenti colpe, e per conquistare l'immortalità), e dopo avere affrontato terribili mostri, deve impossessarsi almeno di tre pomi d'oro delle Esperidi. Questi mitici frutti, regalo di nozze fatto da Gea ad Era quando si era sposata con Zeus erano prodotti da un albero che si trovava in un'isola-giardino posta agli estremi confini del mondo (si ritiene trattarsi del Marocco) che era vigilato dalle Esperidi (Espere, Egle, ed Erizia, tutte figlie della Notte), dal drago-serpente Ladone, ed anche da Atlante (figlio di Giapèo e di Asia, che per aver preso parte alla rivolta dei Giganti contro Giove era stato condannato a reggere il peso del mondo, con le spalle, la teste e le mani, là dove tramonta il sole).

Ercole raggiunse il giardino delle Esperidi, uccise il drago, ma per cogliere i tre pomi chiese l'aiuto di Atlante, visto che tra giganti usava darsi una mano. Atlante fece una furbata, e disse che avrebbe provveduto lui a cogliere i pomi d'oro purché Ercole nel frattempo prendesse il suo posto e gli reggesse il mondo; Ercole cascò nell'inganno e si accorse troppo tardi che Atlante aveva l'intenzione di non reggere mai più quel grande peso. Allora fece una furbata anche lui, e senza mostrare di aver capito le intenzioni di Atlante, disse al gigante di avere bisogno di farsi un guanciale per reggere meglio il mondo, e lo pregò di riprendere per pochi minuti il suo vecchio posto. Questa volta ci cascò Atlante, e naturalmente Ercole non si fece più vivo. Successivamente il gigante negò ospitalità a Perseo il quale, per vendicarsi, gli mostrò la testa di Medusa, lo pietrificò e lo trasformò in quella grande montagna che ancora oggi s'innalza tra Tunisia, Algeria e Marocco, e che, appunto, si chiama Atlante.

Ercole, dunque, portò a termine anche l'undicesima fatica e colse i "pomi d'oro", che tutto fa ritenere siano state quelle arance dolci, che sono chiamate "bionde". Non si tratta di una certezza, ma è anche vero che in quella zona dell'Africa mediterranea la coltivazione dell'arancio è antichissima, (forse vi fu introdotta dagli Arabi) e che da quelle contrade passò nella penisola iberica.

Le verità, dicevamo, sono due. Quella delle enciclopedie, e quella della mitologia. È peraltro curioso che nelle enciclopedie si legga che l' esperidio è il nome del frutto degli agrumi, che l' esperidina è un glucoside contenuto nell'estratto dell'arancio amaro, e che c'è perfino una cura a base di agrumi che si chiama esperidoterapia. (Ancora oggi, insomma, le leggendarie Esperidi profumano d'arancio).



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Pagina 269
ROSMARINO



Salvò sette ladri dalla peste
e ringiovanì una vecchia regina



Per chi è stato ragazzo in Toscana resta indimenticabile il pan di ramerino, e resta imperitura la gratitudine verso il rosmarino, l'erbetta aromatica con la quale i fornai fabbricavano (e ancora qualcuno seguita a farlo) quel delizioso, profumatissimo, piccolo pane, che costituiva, in genere, la promessa delle madri quando volevano ottenere qualcosa da figli a volte intrattabili, pigri, capricciosi. "Se finisci i compiti — dicevano — ti compro un pan di ramerino...". (Non si sa quanti siano gli uomini importanti del tempo d'oggi, che devono al rosmarino se da ragazzi sono andati avanti negli studi...).
È una delle piante aromatiche più comuni, presente in tutti gli orti della campagna, ma poi divenuto pendolare nelle città dove è immancabile in tante terrazze di prestigiosi palazzi, o di più modeste case operaie. Citatissimo nei testi gastronomici, è l'amico delle massaie e dei cuochi professionisti che se ne servono per insaporire molte vivande, dalle carni, alla cacciagione, alle schiacciate, ad altri alimenti, tra i quali, in primissima fila il pesce che non può finire sulla griglia, o al cartoccio, senza un rametto dalle ben note fogliuzze aghiformi. Indiscutibile per i suoi pregi, è peraltro molto discussa l'etimologia, perché per i più rosmarino significa rosa del mare, ma se alcuni ritengono che derivi da rosa e da maris, e altri pensano che significhi rugiada del mare, altri ancora credono che il significato originario sia quello di arbusto del mare, derivando cioè dal termine rhus nell'accezione, appunto, di arbusto Comunque nella storia di questa aromatica, il mare è importane poiché, oltre al rosmarino coltivato (che teniamo nel vaso di terrazza, o in grandi siepi negli orti) c'è una varietà spontanea di rosmarino (rosmarinus rupestris, o prostratus, o anche humilis) che è strisciante, bassa, e che prospera nella sabbia, vicino al bagnasciuga, laddove comincia la macchia mediterranea, e forse è una di quelle pianticelle che i botanici chiamano pioniere, nel senso che riescono a vivere dove sembra che una pianta non possa vivere, e così facendo creano l'humus e aprono la strada a piante più importanti.

Si può discutere, dicevamo, sull'etimologia, ma sono tutti d'accordo sulle virtù salutari di questa pianticella (alcune reali, altre magari un po' leggendarie), sul fatto, insomma, che l'uomo si è sempre trovato bene in compagnia del rosmarino che è disinfettante, purificante, premessa indispensabile per ogni guarigione. Gli antichi pensavano addirittura che il rosmarino fosse apotropaico, capace cioè di allontanare il male e ogni malanno, e risultasse quindi importante averne una pianta accanto alla porta d'ingresso, o, almeno, alla finestra di casa. Simboleggiando la vita, garantisce l'immortalità, e gli Egizi credevano talmente a tale virtù che in una mano dei defunti ponevano spesso un ciuffetto di rosmarino quale "biglietto d'ingresso" per il mondo dell'aldilà.

Il suo potere disinfettante è testimoniato dall'abitudine antica di bruciare ramoscelli di rosmarino negli ospedali, nei luoghi affollati, nelle case dei malati, e si fabbricavano perfino delle candele al rosmarino da accendere, appunto, in luoghi da purificare. Ma la testimonianza maggiore è nel fatto che il rosmarino figura tra i componenti di quel toccasana, antico di secoli, che fu conosciuto (e lo è ancora oggi) con il mitico nome di Aceto dei quattro ladri, o Aceto dei Sette Ladri, o Aceto dei Quattro Ladroni, che ebbe la propria origine, secondo quanto narrano molte cronache francesi e italiane, nella catastrofica pestilenza che colpì la città di Tolosa nel 1628-1631 (fu attaccata dalla peste anche negli anni 1652-53), oppure in quella che colpì la città di Marsiglia nel 1720. Riassumendo una storia molto complessa, e attenendoci alla versione che stabilisce in Tolosa il palcoscenico della clamorosa vicenda, possiamo ricordare che in quella bella città imperversò nel XVII secolo una feroce pestilenza che dopo tre anni di manifestazioni endemiche larvate, esplose furiosamente facendo qualcosa come quattromila vittime e che ebbe il suo momento più drammatico nel 1631. Ci fu un breve periodo di tempo in cui il terrore fu così grande che se una parte dei cittadini cadde mortalmente malata, un'altra parte si dette precipitosamente alla fuga, abbandonando la città che apparve semideserta.

Furono sacerdoti, frati, medici, magistrati cittadini, che si prodigarono per aiutare gli appestati, ma una parte del clero, della magistratura cittadini, e della classe medica, non fece una bella figura, perché preparati in fretta e furia i bagagli, se ne andò a vivere altrove. A parte l'esagerazione di immaginare Tolosa come una città deserta, certo è che in talune strade, specialmente quelle abitate dai ricchi, regnava la solitudine, e che molte ricche residenze furono abbandonate e incustodite.

Ed ecco che a Tolosa – così come succedeva anche altrove in caso di gravi epidemie – germogliò il triste fenomeno dello sciacallaggio, e cominciò a "lavorare" una banda di ladri che entrava nelle abitazioni dei morti, o dei fuggiti per la paura, che arrivava perfino a spogliare gli appestati ancora vivi, ma rimasti soli e indifesi, e faceva man bassa di ogni ricchezza. La cosa stupefacente (che stupiva specialmente i magistrati tolosani) era che i ladri agivano impunemente senza ammalarsi, cioè, di peste, nonostante che si comportassero nel modo più rischioso per contrarre l'infezione.

Poi accadde che una notte i gendarmi colsero sul fatto la banda degli sciacalli i quali furono gettati in galera e condannati a morte, con la pena di essere legati vivi sopra un rogo. Ma i capi della città pensarono che fosse importante scoprire come mai i "quattro" (o "sette") "ladri" non avessero mai contratto il fatale morbo, e offrirono agli sciacalli una mitigazione della pena qualora avessero rivelato con quale sostanza si fossero "vaccinati", o comunque con quale farmaco avessero potuto evitare il contagio. Allora i quattro, o sette, ladroni, confessarono che dovevano la loro salvezza ad uno speciale aceto con il quale si spalmavano il corpo prima di entrare nei luoghi contagiati, che ottenevano mettendo a macerare per qualche tempo dentro in un recipiente colmo di aceto bianco di vino, molte piante aromatiche tra le quali principalmente il rosmarino, noto disinfettante, ma anche fiori, foglie, cortecce, radici, di salvia, lavanda, canfora, menta, ruta, cannella, timo, e altre essenze, tutte notoriamente antisettiche, balsamiche, tonificanti.

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