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venerdì 31 maggio 2013

Né Dio né legge La Cina e il caos armonioso

Né Dio né legge


Editori Laterza :: Né Dio né legge


In breve

«A noi è bastato Confucio: a lui non interessava l’universo, tanto meno l’aldilà. Quando un discepolo chiese al Maestro cosa fosse la morte, questi gli rispose: se non comprendi ancora cosa è la vita, come puoi pretendere di sapere cosa sia la morte?»
Soltanto in Occidente la religione è tutto e tutto pervade. Non è concepibile un’Europa senza cristianesimo, senza teologi, senza papato, senza guerre di religione, senza grandi eretici. Ma come hanno fatto i cinesi la cui civiltà è stata autorevolmente definita ‘Né Dio né legge’? Come hanno vissuto per tremila anni se presso di loro l’umano non si contrappone al divino, i santi o i saggi sono concreti e non compiono miracoli, l’ordine nasce dal buon accordo e le regole si impongono in quanto forniscono dei modelli? Comesi sono imposti come potenza egemone, facendo a meno di quelli che sono considerati i due pilastri fondamentali della civiltà, almeno la nostra?
Questo libro racconta storie di ieri e di oggi ed è un racconto di chi ha vissuto in Cina e l’ha compresa nel profondo del suo cuore. Va dalla predicazione dei missionari gesuiti alla più grande ribellione della storia cinese a metà Ottocento. Dai difficili tentativi di modernizzazione del Celeste Impero, quando fu necessario inventare una parola per dire ‘religione’, alla violenza della guerra dei Boxer; dal dichiarato ateismo dell’epoca di Mao e delle Guardie Rosse all’attuale rinascita di una religione popolare, che fonde buddhismo, daoismo e confucianesimo.
Se ora si assiste alla convergenza di elementi cinesi e occidentali, sarebbe sbagliato giungere alla conclusione che stanno diventando come noi. È più probabile che noi si sia obbligati a diventare più simili a loro in un prossimo futuro.
Edizione: 2013
Collana: i Robinson / Letture
ISBN: 9788858107348

Anche quest' anno parteciperemo

mercoledì 29 maggio 2013

BRUNO ARPAIA, PIETRO GRECO "La cultura si mangia" (Guanda) intv con B. A...

Con la cultura si mangia. In un pamphlet la risposta a Tremonti (cifre e proposte concrete alla mano)

 Guanda



La cultura è un bene di lusso? La nostra classe dirigente non ha dubbi: non si mangia e quindi non serve. O, secondo altri, è bella e utile ma non possiamo permettercela. Risultato bipartisan: tagli su tagli, dal 2,1 per cento della spesa pubblica nel 2000 allo 0,2 di oggi, e un’Italia avvitata nella più infelice delle decrescite. invece si dà il caso che la cultura sia, ovunque, il motore dello sviluppo, come dimostra questo pamphlet documentato, battagliero, propositivo. Lo scrittore e critico letterario Bruno Arpaia e il giornalista scientifico Pietro Greco, autori del pamphlet "La cultura si mangia" (Guanda), sfatano miti tossici: non è vero che il nostro Paese può vivere di passato e di "patrimonio artistico". Forniscono coordinate utili: dal 2007, in piena crisi, l’occupazione nelle industrie culturali italiane è cresciuta in media dello 0,8 per cento l’anno. Analizzano esempi virtuosi, dal New Deal alla rinascita di Bilbao, dal miracolo artistico della Ruhr alla riscoperta scientifica di Trieste. E offrono idee concrete per una rivoluzione della struttura produttiva del Paese, un progetto di sviluppo fondato sulla conoscenza. Spunti indispensabili per la classe politica, che ha il compito di guidare fuori dalla crisi un Paese sempre più confuso, ignorante e (quindi) povero...
LEGGI SU AFFARITALIANI.IT UN ESTRATTO
(per gentile concessione di Guanda)
E adesso, sulla base di tutti i numeri che abbiamo dato, proviamo a fare ciò che non hanno fatto gli economisti: a immaginare quale sarà il ruolo dell’Italia nel futuro prossimo venturo. Fra trent’anni. Da un lato avremo il mondo della conoscenza: con Paesi come la Corea del Sud, il Giappone, la Russia, il Canada in cui tre persone in età da lavoro su cinque avranno una laurea. E in cui i principali fattori di sviluppo economico saranno la ricerca e le industrie creative. In questo mondo ci saranno una serie di altri Paesi – dagli Stati Uniti alla Cina, dal Sudafrica al Brasile – che tenderanno a raggiungere in un modo o nell’altro performance analoghe.
Dall’altro avremo gli « esclusi dalla conoscenza ». Paesi dove il numero di laureati in età da lavoro supererà appena il 10 per cento. In cui i beni e i servizi prodotti saranno sempre meno e sempre meno importanti. Paesi che dovranno sperare di sopravvivere continuando a comprimere stipendi e welfare. È questo il futuro dell’Italia che stiamo costruendo.
Se non cambiamo rapidamente questa condizione, se l’Italia – patria di Dante e di Galileo, di Leopardi, di Fermi e degli scienziati che hanno infine individuato il « bosone di Higgs » – non si ricorderà nei prossimi mesi di avere nella conoscenza il suo maggiore e ormai unico potenziale, potremo dare ai nostri figli – non solo ai migliori cervelli, che pure continuiamo a produrre in abbondanza, ma a tutti – un solo realistico consiglio: « Fujtevenne! » come quello che anni fa diede Edoardo De Filippo ai giovani che gli chiedevano se restare a Napoli o accettare la via dell’emigrazione. Lo stesso che ha dovuto dare nel luglio 2012 Fernando Ferroni, coraggioso presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, proprio ai giovani ricercatori che avevano appena contribuito a intercettare il « bosone di Higgs ». In effetti, le scelte degli ultimi governi sarebbero già un messaggio mortale per la ricerca italiana e per la cultura in generale, un implicito – ma neppure troppo – invito ai giovani studenti, artisti, intellettuali e ricercatori: « Fujtevenne! » Per voi, in Italia, non c’è futuro.
Una simile situazione è grave in sé . E dovrebbe scatenare un dibattito serio e appassionato nel Paese. A ogni livello: politico, sociale e culturale. Ma c’è di più . Il combinato disposto di queste scelte dimostra che nessuno – né il governo Prodi, né tanto meno il governo Berlusconi, ma neppure il governo di Monti e dei tecnici – ha compreso qual é la causa profonda del declino economico e non solo economico dell’Italia: un declino che dura senza soluzione di continuità da almeno vent’anni.
Il nostro Paese ha scelto, in un periodo preciso (l’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso), con persone precise (di cui alcuni storici come, per esempio, Gianni Paoloni sono in grado di fare, documenti alla mano, nomi e cognomi), di seguire una strada verso lo sviluppo diversa da tutti gli altri. Per alcuni questa strada ha le sembianze di un vero e proprio modello alternativo a quello degli altri Paesi di antica (e anche nuova) industrializzazione: un « modello di sviluppo senza ricerca ». Un modello di sviluppo senza conoscenza.
In soldoni (si fa per dire), mezzo secolo fa l’Italia è diventata un grande Paese industriale (secondo, in Europa, solo alla Germania), ritagliandosi una nicchia isolata nell’ambito dei prodotti a bassa innovazione tecnologica. Nella scelta di questo peculiare modello l’Italia ha puntato essenzialmente su due fattori: il basso costo del lavoro rispetto a quello delle economie concorrenti e la periodica svalutazione, cosiddetta competitiva, della sua moneta, la lira.
Per due o tre decenni – quando eravamo « i più poveri tra i ricchi » – il modello ha funzionato. L’Italia poteva vantare la maggiore crescita economica al mondo, seconda solo a quella del Giappone. Ma negli anni Ottanta il modello ha iniziato a mostrare tutti i suoi limiti. Appena nascosti dal made in Italy e dalla creatività, mirabile ma artigiana, della moda o del design. Poi arrivano gli anni Novanta e per l’Italia non e` più possibile utilizzare nessuna delle due antiche leve del successo senza ricerca. Paesi poveri, che una volta si chiamavano « in via di sviluppo » perché sostanzialmente fuori dal sistema industriale e commerciale mondiale, hanno fatto irruzione sulla scena (la cosiddetta nuova globalizzazione), con un costo del lavoro decisamente inferiore a quello italiano. Nel medesimo tempo l’Italia è entrata prima nel sistema di cambi fissi dell’Unione europea e poi nel sistema monetario fondato su una moneta forte e non svalutabile a piacere, l’euro.
Da venti anni almeno, dunque, abbiamo perso quelle due antiche leve: il costo del lavoro italiano è di gran lunga più elevato rispetto a quello dei nuovi concorrenti a economia emergente (inclusi Cina, India, molti altri Paesi del Sud-Est asiatico, ma anche Brasile, Sudafrica e altri sia latinoamericani sia africani); non abbiamo più la « liretta » da svalutare, ma al contrario un moneta, l’euro, forte e (tutto sommato) solida. In questi ultimi venti anni non abbiamo preso atto che il mondo è cambiato. Non abbiamo compreso che nell’era della « nuova globalizzazione » non c’è più posto per la vecchia specializzazione produttiva dell’Italia. Che non possiamo più pensare anche solo di galleggiare continuando a produrre con le nostre industrie beni a media e bassa tecnologia. Che le due antiche leve che garantivano il successo al « modello di sviluppo senza ricerca » non potevano essere più utilizzate. Che la nuova situazione lasciava aperta la porta a due sole possibilità. O un declino sempre più profondo o un’impresa titanica, al limite del velleitarismo: il rapidissimo cambiamento della specializzazione produttiva. In altri termini: o il sistema Italia inizia a produrre altri beni, diversi da quelli prodotti nell’ultimo mezzo secolo, o il Paese muore.
Lo abbiamo visto qualche pagina fa: gli unici beni che un Paese con un’economia sviluppata e una società avanzata possono oggi produrre in maniera competitiva sono quelli ad alto valore tecnologico aggiunto. Anzi, ad alto « tasso di conoscenza » aggiunto. Per produrli abbiamo bisogno di luoghi ove si crea « nuova conoscenza »; di luoghi dove questa nuova conoscenza venga trasformata in prodotti hi-tech o ad alta knowledge intensity; infine, abbiamo bisogno di superare l’antica ritrosia del sistema produttivo italiano a misurarsi con i migliori sulla scena internazionale, senza cercare furbe scorciatoie o nicchie isolate.
Quali siano i luoghi della produzione di « nuova conoscenza » è cosa ben nota. Tra i principali ci sono i centri pubblici e privati di ricerca scientifica. In questi settori l’Italia ha due gap da recuperare: uno enorme, l’altro abissale. Quello enorme riguarda la ricerca pubblica: come abbiamo detto, in questo settore il nostro Paese spende, in media, poco più di un terzo degli altri. Quello abissale riguarda la ricerca privata: l’industria italiana investe in ricerca una quota di Pil (intorno allo 0,4 per cento) che è inferiore persino di quattro quinti rispetto a quella degli altri Paesi avanzati.
(continua in libreria)

http://cronachedellabirinto.wordpress.com/2013/05/26/il-linguaggio-della-psiche-una-visione-alchemica/

“Per la psiche l’oscurità di espressione è naturale.
Prova ne siano i nostri sogni: meri bagliori”

J. Hillman.
Nel primo articolo di una raccolta di suoi scritti uscita recentemente in Italia e intitolata “Psicologia Alchemica” Hillman parla di quanto il linguaggio alchemico possa essere terapeutico e curativo per la psiche moderna.
Per chi non è abituato agli scritti di questo autore e al suo modo di affrontare la Psicologia, la Psicopatologia e i Disturbi Psichici, un’affermazione di questo tipo può sembrare strana: ci viene difficile pensare che una vecchia dottrina/disciplina, superata da centinaia di anni e resa obsoleta dagli sviluppi scientifici e dalle scoperte della chimica e della fisica, possa essere utile per affrontare il malessere di persone come noi.
Sembriamo così distanti dai metodi, dagli strumenti e dai fini dell’alchimia che un linguaggio che parla di fucine, fuochi, alambicchi, vasi; cuocere, fermentare, decantare, marcire; rapprendere, diluire, coagulare, sublimare; ci suona estraneo, poco familiare, astruso.
Ma la grandezza di Hillman stava proprio nella sua scelta di essere un pensatore debole: uno che ha deciso di “servire la Psiche” di parlare il suo linguaggio e di accertarne il caos e la natura letteraria, metaforica, imprecisa e immaginale.
La Scienza con il suo pensiero forte è nemica del caos e i suoi sacerdoti, gli scienziati “..tollerano il dubbio e la sconfitta perché non possono fare altrimenti. La sola cosa che non possono e non debbono tollerare è il disordine. Scopo della scienza pura è di portare al punto più alto e più cosciente la riduzione della percezione del caos”. (Simpson)
Gran parte della Psicologia contemporanea soffre di quella che è stata definita “invidia della scienza”: piacerebbe anche a noi psicologi essere precisi e accurati: eliminare tutto il caos di una persona con una diagnosi che definisca perfettamente il male di cui soffre, una prognosi che stabilisca i modi e i tempi della cura, una terapia che elimini le cause dei sintomi e ristabilisca una perfetta salute mentale.
E, tuttavia, qualsiasi psicologo che vi prospetti, per una qualsiasi Psicoterapia, un iter di questo tipo è… uno pieno di buone intenzioni, ma che non potrà mantenere ciò che vi sta promettendo.
La psiche, sia da “malata” che da “sana”, sfugge alle categorie preordinate, non sta nei parametri e li sfonda sempre da qualche parte, trascende il linguaggio clinico e, anche se una diagnosi può in qualche modo essere utile a chi interviene per portare aiuto, è spesso uno strumento troppo stretto per cogliere il dolore, la sofferenza e le ragioni di chi con quella psiche si identifica, con quei mali si veste, in quei sintomi ristagna, in quelle stereotipie, compulsioni, ossessioni, suo malgrado, si crogiola.
James Hillman queste cose le sapeva bene e gran parte della sua opera è andata nella direzione di convincere gli psicologi a rinunciare, nella loro professione, al pensiero forte della scienza e ad avvicinarsi, nella clinica e nella psicoterapia in particolare, al linguaggio di Psiche, al suo modo di esprimersi e di essere in scena.
Ecco perché dice che, pur tenendo ben presente il nostro tempo e senza buttare niente di ciò che la scienza ha aggiunto alla conoscenza della mente e del comportamento, dovremmo ascoltare la psiche usando il suo linguaggio che è molto più vicino a quello degli antichi alchimisti che a quello dei moderni scienziati. “Ho cercato di obbedire a uno dei princìpi dello stesso Jung, quello di ‘restare dentro l’immagine’, di rimanere fedele ai colori, alle sostanze ai recipienti, al fuoco: alle immagini con le quali un’immaginazione sensoriale presenta gli stati dell’anima. Il principio di ‘restare dentro l’immagine’ recupera l’antica massima greca: ‘salvare i fenomeni’ e i fenomeni dell’alchimia ci mettono di fronte al caos.” (Hillman 2010).
Salvare i fenomeni e restare con l’immagine sono modi ecologici di affrontare la psiche.
Ci permettono di affrontarne il caos rispettando la sua funzione creativa: la psiche sempre metaforizza e sempre costruisce, con i materiali che ha a disposizione, una qualche immagine, un qualche “stato d’animo”, un sintomo, una sensazione, un baluardo per sostenere il vuoto, o per reggere l’esposizione al mondo, ai suoi urti e alle sue sollecitazioni.
Stare con l’immagine è stare con la psiche e il linguaggio alchemico è un modo per approssimare i fenomeni che dentro di noi e intorno a noi, nella relazione, la psiche sempre “costella”, mette in scena, agisce.
“Rientra in scena l’alchimia. La sua bellezza risiede appunto nel suo linguaggio materializzato. Io so di non essere composto di zolfo e di sale, di non essere immerso in sterco di cavallo, di non essere in via di putrefazione o di congelazione, sul punto di diventare bianco, verde o giallo, di non essere cinto da un serpente che si morde la coda, di non essere una creatura alata. Eppure lo sono! e’ impossibile prendere alla lettera queste espressioni, anche se sono tutte molto precise e, dal punto di vista descrittivo, vere. Benché le parole siano concrete, materiali, fisiche, è chiaro che sarebbe un errore prenderle letteralmente. L’alchimia ci offre un linguaggio di sostanze che non può essere presso sostanzialisticamente, ci offre espressioni concrete che non sono letterali. E’ questo il suo effetto terapeutico: ci impone la metafora.” (Hillman 1977).
Accentando il “come se” della metafora ci avviciniamo a Psiche e a Natura perché questo è il modo che hanno di comunicare e di entrare in relazione.
Quando, nei primi colloqui con un paziente, lo sento esprimere una diagnosi: quelle cose del tipo “sa, dottore, ho avuto un attacco di panico… mi hanno detto che sono bipolare… sono depresso”, lo invito a ricordare quello che sentiva o a “descrivermi con un esempio” ciò che prova.
Dopo un po’, quando riesce a lasciare andare il pensiero forte che gli impone di contenere in una definizione la propria sofferenza escono belle e significative metafore: “mi sento proprio nella merda e a volte, invece, mi sembra di stare benissimo, come se volassi…. non respiravo più ed ero come chiuso in un vaso di vetro, troppo distante da tutto e da tutti… avrei voluto dargli fuoco, quando mi tratta così vorrei schiacciarlo e ridurlo in poltiglia…”.
E’ in questi momenti e con queste descrizioni che si inizia a dar spazio a Psiche, a lasciare che, per un po’, l’uomo moderno vada sullo sfondo e un linguaggio più antico e profondo porti in superficie i contenuti con cui lavoreremo veramente durante la terapia.

James Hillman Psicologia alchemica

 



Che Jung considerasse l’immaginario alchemico una risorsa per la pratica psicoanalitica è testimoniato da opere quali Psicologia e alchimia e Mysterium Coniunctionis. Negli scritti qui raccolti Hillman riprende e approfondisce le intuizioni junghiane traendone un solido impianto epistemologico, sorprendente per coerenza e originalità. Se «l’individuazione della nostra anima richiede il riconoscimento dell’individualità dell’anima presente nelle cose», è legittimo affiancare alla psicologia un mondo a prima vista ai suoi antipodi come l’alchimia, giacché non vi è poi grande differenza tra chi tentava di trasmutare metalli vili in oro e chi trasmuta anime sofferenti in anime rasserenate, «indorate» di pace. Con il contagioso entusiasmo di un esploratore, Hillman illustra le corrispondenze insospettate tra stadi dell’opus alchemico e momenti dell’opus analitico: dalla nigredo inconsolabile delle fasi depressive alla lunare albedo della riflessione, dalla citrinitas dolorosa, in cui la mente «soffre la propria comprensione», alla rubedo finale, che porta all’armonia di psiche e cosmo, di giudizio critico e fantasia estetica. E il primo paziente di questa terapia fondata su sostanze mutevoli e influssi astrologici è la psicologia stessa, poiché lo scopo dichiarato di Psicologia alchemica è fornirle «un altro metodo per immaginare le proprie idee e i propri procedimenti», guarirla dalla «letteralizzazione» che ne ha fatto un sistema di concetti ossificati e inariditi. Qui sta, in definitiva, la vera forza di queste pagine: il linguaggio alchemico dona nuova energia a quel processo di revisione della psicologia cui James Hillman ha dedicato tutta la vita.

I libri hanno bisogno di noi Saggi Traduzione dal francese di Emanuele Lana 96 pagine € 10.00

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George Steiner nei tre saggi che compongono questo aureo libello, meno di 80 pagine, dal titolo I libri hanno bisogno di noi, proposto da Garzanti a ben dieci anni di distanza dall’edizione francese (dove peraltro era parte di un lavoro più ampio, Les logocrates), riflette con la consueta lucida intelligenza, sull’importanza, anzi sulla necessità, dei libri e della scrittura. «I libri – scrive Steiner nel primo saggio Quelli che bruciano i libri… – sono la chiave d’accesso di cui disponiamo per arricchire la nostra esistenza [...]. L’incontro con il libro [...] può essere del tutto casuale. Il testo che ci persuaderà di un’idea, ci farà aderire a un’ideologia e darà alla nostra esistenza un fine e una cifra interpretativa, poteva essere lì ad attenderci sullo scaffale delle occasioni, dei libri usati o di quelli in offerta». Per questo i libri vengono bruciati e gli scrittori e i poeti uccisi o messi al bando dai regimi.
I libri però non vivono da soli: hanno bisogno dei lettori, che li arricchiscono di significato e in qualche modo, li ricreano, attraverso uno scambio quasi alla pari, improntato su un rapporto di reciproca fiducia. Rapporto fondato su una lettura, per così dire, impegnata, colta, che implica «silenzio, intimità, cultura letteraria (literacy) e concentrazione», condizioni indispensabili per stabilire un incontro approfondito tra la Lettera e lo Spirito.

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Nel secondo saggio «Popolo del libro» Steiner si sofferma sul nesso scrittura-ebraismo. Mentre Socrate e Gesù di Nazaret non scrivono (anzi, forse Gesù era analfabeta), storicamente l’ebreo si è dedicato continuamente all’«ingrato compito filologico»: «il corpus prescrittivo e normativo degli scritti canonici ha cresciuto generazioni che memorizzano meccanicamente senza riflettere». Da qui, secondo l’originale lettura dell’autore di Morte della tragedia, la supremazia ebraica, specialmente negli Stati Uniti, nei media grafici, come cinema, televisione, pubblicità e stampa di massa. Essa è l’effetto di una «rivolta edipica contro il dominio assoluto che il verbo rivelato e legislatore ha esercitato sul giudaismo per millenni». Analogamente il decostruzionismo di Deridda e il postmodernismo, sua derivazione, rompendo il legame tra Parola e Mondo – fondamento della promessa di Dio a Israele – rappresentano la reazione nei confronti di una fede e di una morale, che non sono state in grado di evitare la Shoà, o quanto meno di mettere in guardia contro di essa. Così ora è l’Islam il «popolo del libro»: «l’assenza generale di cultura profana, d’insegnamento superiore e di sistemi di valori scientifici e tecnici attribuisce al Corano una centralità, un’influenza nella vita quotidiana, un monopolio referenziale quasi obsoleto nel giudaismo di fine XX secolo».
È una riflessione che Steiner puntualizza ulteriormente nel saggio conclusivo del volume, I dissidenti del libro. Il punto di partenza è dato dal seguente assunto: «l’oralità aspira alla verità, all’onestà dell’autocorrezione, alla democrazia, per così dire, dell’intuizione condivisa […]. Il testo scritto, il libro chiuderebbe definitivamente la questione». La scrittura infatti per sua natura è normativa: implica la delimitazione e la circoscrizione di uno spazio di consenso o di interpretazione. Per questo il giudaismo della Torà e del Talmud e l’Islam del Corano sono «libreschi», in quanto espressioni di ortodossia. Al contrario del Cristianesimo, che è «orale», incarnandosi nella persona del Nazareno. Non a caso, i vangeli sinottici non sono lineari, derivando «da una forte tensione tra un’oralità sostantiva e una scrittura performativa». La “svolta libresca” si ha soprattutto nell’Ellenismo con gli scritti di Paolo di Tarso, la cui stesura è mossa dalla convinzione di sfidare il tempo, di durare più del bronzo, di continuare ad echeggiare nell’orecchio e nella mente degli uomini quando il marmo sarà tornato polvere. Convinzione da cui poi prenderanno forma «le immagini maestose, le metafore vive dell’Apocalisse con i suoi sette sigilli, del Libro di vita, presenti in Giovanni di Patmos e in tutta l’escatologia cristiana». Però non sempre nella storia ha dominato incontrastata la convinzione che il libro sia il depositario della cultura, della morale e dello spirito. Steiner individua una corrente, da lui definita «pastoralismo radicale» – la quale ha nel Rousseau dell’Emilio, nel pensiero di Goethe o nella poesia di Wordsworth le sue punte, cioè in tre “uomini di scrittura” immensi – caratterizzata dalla aspirazione all’autenticità, alla nudità dell’io, che la porta a svalutare il sapere libresco in quanto mediato. Ve ne è poi un’altra, che ha il suo archetipo nell’ascetismo iconoclasta dei padri del deserto. Essa è animata da una opzione antiumanistica: si pensi – ricorda Steiner – ai poeti futuristi e leninisti russi, che «invitano a bruciare le biblioteche, quando la posizione ufficiale, naturalmente, era quella di preservarle con cura». Si tratta però di due correnti che nel corso della storia sono state sempre ampiamente minoritarie, incapaci di scuotere l’autorevolezza del libro e della scrittura.

LO SCAFFALE INFINITO Storie di uomini pazzi per i libri PONTE alle GRAZIE

 

Fondare biblioteche» diceva Marguerite Yourcenar «è ancora un po’ come costruire granai pubblici: ammassare riserve contro l’inverno dello spirito». Da sempre, ogni biblioteca è un baluardo alla decadenza, un simbolo concreto con cui opporsi alla volgarità del presente. Lo scaffale infinito è un racconto che si snoda su un arco di oltre sei secoli, tra collezionisti, volumi e biblioteche di tutto il mondo. È un viaggio che annulla i confini di tempo e spazio: dall’umanesimo toscano al mondo globalizzato del terzo millennio, attraverso l’Europa rinascimentale e la Russia degli zar, gli Stati Uniti dell’esplosiva crescita economica di fine Ottocento e la sciagurata parentesi nazista
Incontriamo figure immense della storia letteraria, come Francesco Petrarca, con la sua straordinaria collezione di manoscritti e l’amore smisurato per Virgilio; personaggi più oscuri ma non meno importanti, come Hernando Colón, figlio illegittimo di Cristoforo Colombo, e Monaldo Leopardi, padre non amato di Giacomo; potenti cardinali come Federigo Borromeo e Mazarino, industriali dalle ricchezze favolose e attori squattrinati, come i primi stampatori di Shakespeare, inconsapevoli dell’eredità che avrebbero lasciato al mondo. A chiudere il cerchio, vero e proprio nume tutelare dell’amore per i libri, Umberto Eco, emblema di eclettismo ed esempio concreto dell’utopica «biblioteca universale» di cui favoleggiava Borges. L’autore ci prende per mano attraverso i suoi molteplici viaggi e incontri, racconta con leggerezza e ironia le altrui e le proprie esperienze fra gli scaffali polverosi di un rigattiere e gli edifici monumentali che ospitano i tesori di carta dell’umanità. È un libro che racconta di altri libri, ma da un’angolazione speciale: un’eredità che non smette mai di arricchirsi, una storia che «è molto, molto decisa a scrivere tanti altri capitoli».
 
 
 UN BRANO  
"Io il Virgilio del Petrarca l’ho visto, in un caveau sotterraneo blindatissimo, gremito di libri rari, unici, introvabili. Per uno come me, una vera caverna di Alì Babà, dove perdersi per giorni, magari settimane. Quando mi ci hanno ammesso, non smettevo di far girare lo sguardo su tutti quei dorsi antichi, con le pergamene vecchie di cinquecento anni e le legature sontuose dei tempi andati. Volumi inestimabili, senza soluzione di continuità; eppure, anche in quella compagnia, quel codice appartenuto a Petrarca è forse il più bello di tutti: grande, austero, autorevole, nel suo formato imponente reso ancora più maestoso da una legatura blu intenso dove, sotto la scritta in oro Virgilius cum notis Petrarcae, si ripetono gli stemmi imperiali con la N di Napoleone."


111 errori di traduzione che hanno cambiato il mondo

111 errori di traduzione


111 errori di traduzione che hanno cambiato il mondo

mercoledì 8 maggio 2013

Il testo che accompagnerà le nostre attività x il MAGGIO dei LIBRI 2013



Elogio della lettura è un libro scritto da Michèle Petit, redatto potremmo dire, sotto forma di saggio, poiché la scrittrice fa un vero e proprio tour attraverso interviste, racconti, pezzi di libri sul meraviglioso mondo della lettura.
Nella sua vita, la Petit, ha incontrato numerose persone appassionate alla lettura e ogni volta ha colto l'occasione per intervistarle e farsi raccontare la loro esperienza con i libri e il risultato che ne è uscito è a dir poco sorprendente! Individuerà cosa si mette in moto con un libro e le reazioni che si sprigionano con la lettura.
I temi affrontati dalla scrittrice sono di vario genere: si passa infatti da episodi in cui i libri venivano censurati alle strategie di marketing per riuscire a vendere un libro, dalla lettura di un testo ai bambini ai genitori che si arrabbiano per questo, dagli effetti positivi che si hanno dopo la lettura di un testo alle fantasticherie...Questi sono solo alcuni dei molteplici aspetti trattati.
Il libro scorre velocemente e bene, è scritto con un linguaggio abbastanza semplice e comprensibile ed è diviso per argomenti in modo da fare capire subito al lettore cosa affronta il capitolo che andrà a leggere.
Tra libro e lettore si crea una relazione che durerà in eterno! Basta raccontare una storia ad un bambino per vedere come se ne appropria e come la utilizza nei giochi e nelle situazioni quotidiane. Quignard afferma che noi siamo una specie assoggettata al racconto: a chi non è mai capitato di raccontare una storia a qualcun altro? L'uomo ha infatti, da sempre, bisogno di raccontare storie che a loro volta verranno raccontate e quindi trasmesse ad altre persone che a loro volta le racconteranno ad altre e così infinite volte.
In un libro possiamo "perderci" poiché quello che leggiamo diventa un tutt'uno con noi, a volte ci immedesimiamo talmente tanto nel personaggio di quella storia che quest'ultima sembra essere stata scritta apposta per noi; ritrovare la nostra vita, le nostre emozioni, le stesse situazioni che abbiamo provato sulla nostra pelle, riportate in un libro, ci fa sprigionare un'energia che prima ci paralizzava. Purtroppo quest'ultimo punto crea non pochi problemi. Infatti ci sono numerosi casi in cui la lettura viene vietata proprio perché i lettori sono "catturati" dal libro, ipnotizzati potremmo dire e questo, ai genitori, tanto per fare un esempio, non va bene. I ragazzi si lasciano trasportare dal libro in quel mondo immaginario, irreale in cui c'è quell'eroe o eroina che tutti gli adolescenti hanno sognato almeno una volta di essere! Molte persone odiano i lettori poiché li definiscono asociali perché leggere li fa allontanare dalla realta' e perché i lettori non danno spazio ad altre cose!
La lettura dà spazio all'immaginazione, alla fantasticheria, alla creazione di un altro mondo...Per leggere dobbiamo prenderci il nostro tempo, isolandoci da tutto e tutti. Ognuno cerca e crea uno spazio dove poter leggere indisturbati. E' per questo che ci sono le biblioteche. Sì, per questo motivo e per molto di più! Le biblioteche proteggono il lettore dal mondo circostante mandandolo in un altro cosmo: è il caso del giovane Ridha, per dirne uno, che leggendo Tarzan si metteva ad urlare dalla cima di un albero!
Secondo degli studi, chi si trova di fronte a un lutto, a una crisi, a una malattia o a qualsiasi altra situazione difficile sceglie proprio la lettura per affrontare un problema, poiché viene ritenuta un mezzo che dona forza per andare avanti giorno dopo giorno.
Questo testo racconta "il mondo della lettura" ai lettori e magari anche ai non lettori, a coloro che si ostinano a rifiutare la lettura, a coloro che non iniziano a leggere per paura di lasciarsi troppo andare, a coloro che non leggendo perdono la possibilita' di crearsi un mondo parallelo a quello reale, un mondo alternativo alla realta' quotidiana, spesso vista come una gabbia per uccellini.
Di certo questo libro offre numerosi punti a favore della lettura, magari con l'intento di far capire che leggere, riveste per ognuno un' importanza straordinaria dal punto di vista culturale ma soprattutto personale e psicologico.

Il MAGGIO dei LIBRI 2013



Per il terzo anno consecutivo torna Il Maggio dei Libri, la campagna nazionale promossa dal Centro per il libro e la lettura del Ministero per i Beni e le Attività Culturali in collaborazione con l'Associazione Italiana Editori, sotto l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica e con il patrocinio della Commissione Nazionale Italiana per l'UNESCO. La campagna si avvale inoltre del supporto della Presidenza del Consiglio dei Ministri, della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, dell’Unione delle Province d'Italia e dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani.
Nata nel 2011 con l’obiettivo di sottolineare il valore sociale della lettura come elemento chiave della crescita personale, culturale e civile, la campagna inizia il 23 aprile, in coincidenza con la Giornata mondiale UNESCO del libro e del diritto d'autore, prosegue con la Festa del Libro che si amplia dal 23 al 27 maggio e, altra novità dell'edizione 2013, si prolunga fino al termine del mese, concludendosi il 31 maggio. 
Quest'anno sono tre i claim scelti per rappresentare e accompagnare l'iniziativa: Parti con noi, Fuggi con noi e Abbuffatevi, tutti scaricabili nell’area downloud. Tre suggestioni – testuali, grafiche, ideali – che sottintendono lo spirito dell'intera campagna e lo straordinario potenziale dei libri e della lettura: strumenti che permettono di rimettersi in movimento, di evadere dalle prigioni spesso un po' troppo grigie del quotidiano e di nutrire virtuosamente la propria mente.
L'edizione 2013 conferma alcuni dei capisaldi che sono stati determinanti per il successo dei primi due anni della campagna: dall'impegno a portare i libri al di fuori dal loro contesto abituale (conquistando scuole, circoli, parchi, associazioni culturali, ospedali, uffici postali, treni…), all'obiettivo di coinvolgere anche coloro che ancora non hanno scoperto il piacere della lettura, all'attenzione particolare rivolta a settori fondamentali per il rilancio culturale, sociale e generazionale del paese, come il Web, la scuola e i giovani.
 

Forza e coraggio, maggio è il mese dei libri

Forza e coraggio, maggio è il mese dei libri