George Steiner nei tre saggi che compongono questo aureo libello, meno di 80 pagine, dal titolo I libri hanno bisogno di noi, proposto da Garzanti a ben dieci anni di distanza dall’edizione francese (dove peraltro era parte di un lavoro più ampio, Les logocrates), riflette con la consueta lucida intelligenza, sull’importanza, anzi sulla necessità, dei libri e della scrittura. «I libri – scrive Steiner nel primo saggio Quelli che bruciano i libri… – sono la chiave d’accesso di cui disponiamo per arricchire la nostra esistenza [...]. L’incontro con il libro [...] può essere del tutto casuale. Il testo che ci persuaderà di un’idea, ci farà aderire a un’ideologia e darà alla nostra esistenza un fine e una cifra interpretativa, poteva essere lì ad attenderci sullo scaffale delle occasioni, dei libri usati o di quelli in offerta». Per questo i libri vengono bruciati e gli scrittori e i poeti uccisi o messi al bando dai regimi.
I libri però non vivono da soli: hanno bisogno dei lettori, che li arricchiscono di significato e in qualche modo, li ricreano, attraverso uno scambio quasi alla pari, improntato su un rapporto di reciproca fiducia. Rapporto fondato su una lettura, per così dire, impegnata, colta, che implica «silenzio, intimità, cultura letteraria (literacy) e concentrazione», condizioni indispensabili per stabilire un incontro approfondito tra la Lettera e lo Spirito.
Nel secondo saggio «Popolo del libro»
Steiner si sofferma sul nesso scrittura-ebraismo. Mentre Socrate e Gesù
di Nazaret non scrivono (anzi, forse Gesù era analfabeta), storicamente
l’ebreo si è dedicato continuamente all’«ingrato compito filologico»:
«il corpus prescrittivo e normativo degli scritti canonici ha
cresciuto generazioni che memorizzano meccanicamente senza riflettere».
Da qui, secondo l’originale lettura dell’autore di Morte della tragedia,
la supremazia ebraica, specialmente negli Stati Uniti, nei media
grafici, come cinema, televisione, pubblicità e stampa di massa. Essa è
l’effetto di una «rivolta edipica contro il dominio assoluto che il
verbo rivelato e legislatore ha esercitato sul giudaismo per millenni».
Analogamente il decostruzionismo di Deridda e il postmodernismo, sua
derivazione, rompendo il legame tra Parola e Mondo – fondamento della
promessa di Dio a Israele – rappresentano la reazione nei confronti di
una fede e di una morale, che non sono state in grado di evitare la
Shoà, o quanto meno di mettere in guardia contro di essa. Così ora è
l’Islam il «popolo del libro»: «l’assenza generale di cultura profana,
d’insegnamento superiore e di sistemi di valori scientifici e tecnici
attribuisce al Corano una centralità, un’influenza nella vita
quotidiana, un monopolio referenziale quasi obsoleto nel giudaismo di
fine XX secolo».
È una riflessione che Steiner puntualizza ulteriormente nel saggio conclusivo del volume, I dissidenti del libro.
Il punto di partenza è dato dal seguente assunto: «l’oralità aspira
alla verità, all’onestà dell’autocorrezione, alla democrazia, per così
dire, dell’intuizione condivisa […]. Il testo scritto, il libro
chiuderebbe definitivamente la questione». La scrittura infatti per sua
natura è normativa: implica la delimitazione e la circoscrizione di uno
spazio di consenso o di interpretazione. Per questo il giudaismo della
Torà e del Talmud e l’Islam del Corano sono «libreschi», in quanto
espressioni di ortodossia. Al contrario del Cristianesimo, che è
«orale», incarnandosi nella persona del Nazareno. Non a caso, i vangeli
sinottici non sono lineari, derivando «da una forte tensione tra
un’oralità sostantiva e una scrittura performativa». La “svolta
libresca” si ha soprattutto nell’Ellenismo con gli scritti di Paolo di
Tarso, la cui stesura è mossa dalla convinzione di sfidare il tempo, di
durare più del bronzo, di continuare ad echeggiare nell’orecchio e nella
mente degli uomini quando il marmo sarà tornato polvere. Convinzione da
cui poi prenderanno forma «le immagini maestose, le metafore vive dell’Apocalisse con i suoi sette sigilli, del Libro di vita,
presenti in Giovanni di Patmos e in tutta l’escatologia cristiana».
Però non sempre nella storia ha dominato incontrastata la convinzione
che il libro sia il depositario della cultura, della morale e dello
spirito. Steiner individua una corrente, da lui definita «pastoralismo
radicale» – la quale ha nel Rousseau dell’Emilio, nel pensiero di
Goethe o nella poesia di Wordsworth le sue punte, cioè in tre “uomini
di scrittura” immensi – caratterizzata dalla aspirazione
all’autenticità, alla nudità dell’io, che la porta a svalutare il sapere
libresco in quanto mediato. Ve ne è poi un’altra, che ha il suo
archetipo nell’ascetismo iconoclasta dei padri del deserto. Essa è
animata da una opzione antiumanistica: si pensi – ricorda Steiner – ai
poeti futuristi e leninisti russi, che «invitano a bruciare le
biblioteche, quando la posizione ufficiale, naturalmente, era quella di
preservarle con cura». Si tratta però di due correnti che nel corso
della storia sono state sempre ampiamente minoritarie, incapaci di
scuotere l’autorevolezza del libro e della scrittura.