“Per la psiche l’oscurità di espressione è naturale.
Prova ne siano i nostri sogni: meri bagliori”
J. Hillman.
Prova ne siano i nostri sogni: meri bagliori”
J. Hillman.
Nel primo articolo di una raccolta di
suoi scritti uscita recentemente in Italia e intitolata “Psicologia
Alchemica” Hillman parla di quanto il linguaggio alchemico possa essere
terapeutico e curativo per la psiche moderna.
Per chi non è abituato agli scritti di
questo autore e al suo modo di affrontare la Psicologia, la
Psicopatologia e i Disturbi Psichici, un’affermazione di questo tipo può
sembrare strana: ci viene difficile pensare che una vecchia
dottrina/disciplina, superata da centinaia di anni e resa obsoleta dagli
sviluppi scientifici e dalle scoperte della chimica e della fisica,
possa essere utile per affrontare il malessere di persone come noi.
Sembriamo così distanti dai metodi, dagli
strumenti e dai fini dell’alchimia che un linguaggio che parla di
fucine, fuochi, alambicchi, vasi; cuocere, fermentare, decantare,
marcire; rapprendere, diluire, coagulare, sublimare; ci suona estraneo,
poco familiare, astruso.
Ma la grandezza di Hillman stava proprio nella sua scelta di essere un pensatore debole:
uno che ha deciso di “servire la Psiche” di parlare il suo linguaggio e
di accertarne il caos e la natura letteraria, metaforica, imprecisa e
immaginale.
La Scienza con il suo pensiero forte è
nemica del caos e i suoi sacerdoti, gli scienziati “..tollerano il
dubbio e la sconfitta perché non possono fare altrimenti. La sola cosa
che non possono e non debbono tollerare è il disordine. Scopo della
scienza pura è di portare al punto più alto e più cosciente la riduzione
della percezione del caos”. (Simpson)
Gran parte della Psicologia contemporanea
soffre di quella che è stata definita “invidia della scienza”:
piacerebbe anche a noi psicologi essere precisi e accurati: eliminare
tutto il caos di una persona con una diagnosi che definisca
perfettamente il male di cui soffre, una prognosi che stabilisca i modi e
i tempi della cura, una terapia che elimini le cause dei sintomi e
ristabilisca una perfetta salute mentale.
E, tuttavia, qualsiasi psicologo che vi prospetti, per una qualsiasi Psicoterapia, un iter di questo tipo è… uno pieno di buone intenzioni, ma che non potrà mantenere ciò che vi sta promettendo.
E, tuttavia, qualsiasi psicologo che vi prospetti, per una qualsiasi Psicoterapia, un iter di questo tipo è… uno pieno di buone intenzioni, ma che non potrà mantenere ciò che vi sta promettendo.
La psiche, sia da “malata” che da “sana”, sfugge alle categorie preordinate, non sta nei parametri e li sfonda sempre da qualche parte,
trascende il linguaggio clinico e, anche se una diagnosi può in qualche
modo essere utile a chi interviene per portare aiuto, è spesso uno
strumento troppo stretto per cogliere il dolore, la sofferenza e le
ragioni di chi con quella psiche si identifica, con quei mali si veste, in quei sintomi ristagna, in quelle stereotipie, compulsioni, ossessioni, suo malgrado, si crogiola.
James Hillman queste cose le sapeva bene e
gran parte della sua opera è andata nella direzione di convincere gli
psicologi a rinunciare, nella loro professione, al pensiero forte della
scienza e ad avvicinarsi, nella clinica e nella psicoterapia in
particolare, al linguaggio di Psiche, al suo modo di esprimersi e di essere in scena.
Ecco perché dice che, pur tenendo ben
presente il nostro tempo e senza buttare niente di ciò che la scienza ha
aggiunto alla conoscenza della mente e del comportamento, dovremmo
ascoltare la psiche usando il suo linguaggio che è molto più vicino a
quello degli antichi alchimisti che a quello dei moderni scienziati. “Ho
cercato di obbedire a uno dei princìpi dello stesso Jung, quello di
‘restare dentro l’immagine’, di rimanere fedele ai colori, alle sostanze
ai recipienti, al fuoco: alle immagini con le quali un’immaginazione
sensoriale presenta gli stati dell’anima. Il principio di ‘restare
dentro l’immagine’ recupera l’antica massima greca: ‘salvare i fenomeni’
e i fenomeni dell’alchimia ci mettono di fronte al caos.” (Hillman
2010).
Salvare i fenomeni e restare con l’immagine sono modi ecologici di affrontare la psiche.
Ci permettono di affrontarne il caos rispettando la sua funzione creativa: la psiche sempre metaforizza e sempre costruisce, con i materiali che ha a disposizione, una qualche immagine, un qualche “stato d’animo”, un sintomo, una sensazione, un baluardo per sostenere il vuoto, o per reggere l’esposizione al mondo, ai suoi urti e alle sue sollecitazioni.
Ci permettono di affrontarne il caos rispettando la sua funzione creativa: la psiche sempre metaforizza e sempre costruisce, con i materiali che ha a disposizione, una qualche immagine, un qualche “stato d’animo”, un sintomo, una sensazione, un baluardo per sostenere il vuoto, o per reggere l’esposizione al mondo, ai suoi urti e alle sue sollecitazioni.
Stare con l’immagine è stare con la
psiche e il linguaggio alchemico è un modo per approssimare i fenomeni
che dentro di noi e intorno a noi, nella relazione, la psiche sempre
“costella”, mette in scena, agisce.
“Rientra in scena l’alchimia. La sua
bellezza risiede appunto nel suo linguaggio materializzato. Io so di non
essere composto di zolfo e di sale, di non essere immerso in sterco di
cavallo, di non essere in via di putrefazione o di congelazione, sul
punto di diventare bianco, verde o giallo, di non essere cinto da un
serpente che si morde la coda, di non essere una creatura alata. Eppure
lo sono! e’ impossibile prendere alla lettera queste espressioni, anche
se sono tutte molto precise e, dal punto di vista descrittivo, vere.
Benché le parole siano concrete, materiali, fisiche, è chiaro che
sarebbe un errore prenderle letteralmente. L’alchimia ci offre un
linguaggio di sostanze che non può essere presso sostanzialisticamente,
ci offre espressioni concrete che non sono letterali. E’ questo il suo effetto terapeutico: ci impone la metafora.” (Hillman 1977).
Accentando il “come se” della metafora ci avviciniamo a Psiche e a Natura perché questo è il modo che hanno di comunicare e di entrare in relazione.
Quando, nei primi colloqui con un
paziente, lo sento esprimere una diagnosi: quelle cose del tipo “sa,
dottore, ho avuto un attacco di panico… mi hanno detto che sono
bipolare… sono depresso”, lo invito a ricordare quello che sentiva o a
“descrivermi con un esempio” ciò che prova.
Dopo un po’, quando riesce a lasciare andare il pensiero forte che gli impone di contenere in una definizione la propria sofferenza escono belle e significative metafore: “mi sento proprio nella merda e a volte, invece, mi sembra di stare benissimo, come se volassi…. non respiravo più ed ero come chiuso in un vaso di vetro, troppo distante da tutto e da tutti… avrei voluto dargli fuoco, quando mi tratta così vorrei schiacciarlo e ridurlo in poltiglia…”.
Dopo un po’, quando riesce a lasciare andare il pensiero forte che gli impone di contenere in una definizione la propria sofferenza escono belle e significative metafore: “mi sento proprio nella merda e a volte, invece, mi sembra di stare benissimo, come se volassi…. non respiravo più ed ero come chiuso in un vaso di vetro, troppo distante da tutto e da tutti… avrei voluto dargli fuoco, quando mi tratta così vorrei schiacciarlo e ridurlo in poltiglia…”.
E’ in questi momenti e con queste
descrizioni che si inizia a dar spazio a Psiche, a lasciare che, per un
po’, l’uomo moderno vada sullo sfondo e un linguaggio più antico e
profondo porti in superficie i contenuti con cui lavoreremo veramente
durante la terapia.